Il modo di produzione capitalistico e la questione contadina ieri oggi e domani

di Michele Castaldo – www.michelecastaldo.org

…Questo passaggio, sia pure fondamentale, si è poi dimostrato solo come propedeutico alla vera questione che ha l’umanità di fronte a sé, cioè il rapporto con i mezzi di produzione e di questo con il resto della natura


L’articolo di Michele Castaldo, offre una riflessione circa il bilancio dei precedenti momenti di rivoluzione sociale del passato che inevitabilmente hanno caratterizzato il rivolgimento della struttura sociale nelle campagne e del rapporto tra lo sviluppo dei mezzi di produzione con la terra e con la natura. L’articolo nasce dall’esigenza di riaffrontare la questione che riaffora con tutto il suo potenziale incendiario e rivoluzionario a partire dallo sciopero dei contadini dell’India di pochi giorni fa (ma potremmo aggiungere la lotta dei lavoratori delle campagne non limitate a quelle del subcontinente indiano).

Nella sua riflessione ci obbliga a ragionare su come la questione venne affrontata (che rimanda alla proprietà della terra) nella rivoluzione borghese francese del 1789, dal processo del moto di produzione capitalistico che necessariamente andava a rivoltare gli assetti di proprietà nelle campagne della Russia del 1861, con l’abolizionismo dello schiavismo negli Stati Uniti d’America del 1865, l’assalto proletario e contadino nella russia bolscevica del 1905 e del 1917, fino ad arrivare ad oggi.

Nel 1860 Marx scriveva ad Engels: “..Secondo me, la cosa più importante che sta accadendo nel mondo oggi è il movimento degli schiavi – da un lato, in America, iniziato con la morte di [John] Brown, e in Russia , dall’altro [riguardo alla riforma sulla servitù della gleba]… Ho appena visto nel Tribune che c’è stata un’altra rivolta di schiavi nel Missouri, che è stata repressa, inutile dirlo. Ma ora il segnale è stato dato“.

Nella stessa maniera l’articolo di riflessione proposto rimanda alla necessità di riprendere i fatti straordinari e rivoluzionari del passato, evidenziando come la rivoluzione sociale nelle campagne rimane ancora oggi un aspetto intricato ed inevitabilmente collegata alla rivoluzione sociale per il comunismo, e come il rapporto del modo di produzione capitalista con la terra e con la natura torna a fare capolino sul proscenio della storia proprio per l’effetto prodotto dalla crisi generale e mondiale del modo di produzione capitalistico. Se nel passato e durante la guerra civile americana, la necessità dell’accumulazione capitalistica già portava, vedeva intrecciata a sè la questione della rivoluzione sociale nelle campagne e della proprietà della terra, perchè agli ex schiavi ma anche ai disertori e coloni poveri confederati si prometteva la redistribuzione per famiglia di 40 acri di terra nel dopoguerra, la capacità di espansione dell’accumulazione del capitalismo potè avere la forza di divaricare quei primordiali tentativi di lotta multirazziale unita dei lavoratori delle campagne negli stati del sud, relegando di nuovo gli ex schiavi al lavoro forzato nelle piantagioni, istituzionalizzato con il XIII Emendamento ed accentuando l’oppressione capitalistica secondo le linee del colore. Oggi la fine catastrofica del compromesso sociale nelle campagne indiane che il gandhismo ed il neo gandhismo attuò per rimediare allo sfacelo imposto da più di un secolo di dominazione coloniale ed imperialista, avviene in una fase storica del modo di produzione capitalistico che sempre meno ha a disposizione la possibilità di riassorbire, contenere e sussumere alle sue necessità l’insieme delle contraddizioni generali. Ieri come al tempo di Marx del 1860, ed oggi, ma in un presente più avanzato, l’incendiareità della lotta del proletariato meticcio contro lo schiavismo e della lotta di centinaia di milioni di contadini fanno toc toc: la rivolta per George Floyd chiama, la rivolta nelle campagne dei contadini poveri e poverissimi dell’India risponde. Buona lettura.


Il modo di produzione capitalistico e la questione contadina ieri oggi e domani (di Michele Castaldo)
con una nota analitica sull’India di di “Noi non abbiamo patria

    Le recenti mobilitazioni dei contadini contro le misure il governo Modi in India ci obbligano a riprendere una seria riflessione in merito alla questione agraria nel modo di produzione capitalistico e al ruolo del mondo contadino. E lo dobbiamo fare, come correnti che si richiamano agli ideali del socialismo e del comunismo, sgombrando il campo dagli ideologismi che ci trasciniamo dietro da circa due secoli. Questo vuol dire abbandonare ogni ipotesi positivista, permanendo l’attuale modo di produzione che rappresenta un movimento storico dei rapporti degli uomini con i mezzi di produzione. 

   Diciamo in premessa che le esperienze che si sono fino ad oggi sviluppate, contrassegnate dall’impronta rivoluzionaria in nome del socialismo e del comunismo, erano incentrate sulla proprietà della terra e del suo trasferimento dalle classi nobili alle classi plebee, che hanno caratterizzato il passaggio della produzione agricola artigianale a quella industriale. Questo passaggio, sia pure fondamentale, si è poi dimostrato solo come propedeutico alla vera questione che ha l’umanità di fronte a sé, cioè il rapporto con i mezzi di produzione e di questo con il resto della natura.

    Facendo un passo indietro di poco più di 200 anni, ovvero all’indomani della rivoluzione del 1789, notiamo che il problema che si pone in India in questi anni, si era già posto in Francia, ovvero l’intervento politico del governo nei confronti delle leggi dell’economia che correvano più del tempo orario che l’uomo ha cercato di fissare per organizzare la sua vita rispetto ai tempi della natura. Parliamo dell’introduzione della legge sul maximum, o anche in Italia nell’immediato dopoguerra il cosiddetto calmiere o paniere, cioè una serie di tentativi per tenere in equilibrio lo sviluppo economico senza determinare eccessive distanze fra le classi sociali.

   Il moderno movimento storico ci ha messo sotto gli occhi finora alcuni esempi sul rapporto degli uomini con la terra e l’agricoltura, che possiamo così sinteticamente schematizzare:

  1. Feudo e schiavitù della gleba, ovvero classi aristocratiche e classi bracciantili come proprietà complementare della terra in possesso della nobiltà, con l’obbligo per i braccianti di non potersi allontanare dal feudo pena l’arresto, il rientro nel feudo e il castigo fisico di vario genere. 
  2. Proprietà della terra di tipo borghese, e l’uso schiavistico del bracciantato agricolo.
  3. Proprietà della terra di tipo borghese e l’uso salariato del bracciantato agricolo.
  4. Proprietà della terra e varie forme di affittanza a contadini poveri e ex braccianti

Tali processi si sono incrociati con la rivoluzione industriale e con lo sviluppo capitalistico dei mezzi di produzione che hanno profondamente modificato ogni tipo di rapporto. Per comodità citiamo due esempi, uno negli Usa, con la cosiddetta abolizione della schiavitù, del 31 gennaio 1865; l’altro nella Russia presovietica del 1861 che risultano esplicativi di un percorso obbligato, cioè la liberalizzazione di masse di servi bracciantili per utilizzarli nell’industria. Un passaggio che non fu imposto dalla bontà degli uomini negli Usa, ma da precise esigenze dello sviluppo industriale. Altrettanto dicasi per la cosiddetta Riforma della servitù della gleba del 1861 in Russia dove ingenti investimenti delle potenze europee, come Inghilterra e Francia, richiedevano una mano d’opera liberata dalla servitù della gleba da impiegare a costi bassissimi nelle industrie estrattive, siderurgiche e metallurgiche. 

   Si trattò di un passaggio obbligato che modificò radicalmente il rapporto di una parte degli uomini che passarono da una schiavitù all’altra, tanto negli Usa quanto nella Russia. Con la differenza che in alcuni Stati del sud degli Usa si protrasse ancora a lungo lo schiavismo razzista attraverso l’uso dei neri nelle piantagioni. Negli Stati del sud c’era un numero non insignificante di coloni e proprietari di possedimenti non superiori ai 40 acri e non possessori di alcuno schiavo che dobbiamo distinguere dagli schiavisti proprietari fondiari e capitalistici (come diceva Marx il proprietario della piantagione era sia proprietario fondiario che capitalista allo stesso tempo). 

    Durante la guerra civile questa quantità di coloni bianchi e non possessori di schiavi fu la truppa mandata in trincea, con la coscrizione obbligatoria anche per i ragazzi dai 14 anni in su. Mentre le leggi degli Stati confederati, emanate ad hoc, esoneravano dalla chiamata obbligatoria alle armi componenti delle famiglie dei proprietari terrieri in base al numero di schiavi posseduti: se avevi 20 schiavi, potevi esonerare un figlio, se ne avevi 40 due maschi della famiglia venivano esonerati e via dicendo. In sostanza se avevi gli schiavi era giusto non andare in trincea perché dovevi controllare la preziosa proprietà. 

Questo fu uno degli elementi che determinò un numero crescente di diserzioni delle truppe al fronte ed il fenomeno delle comunità maroons (dal francese che significa ritorno alla vita selvaggia) nelle zone paludose del Mississippi, Louisiana, ecc. composte da schiavi fuggitivi e disertori sudisti. A fine guerra gli schiavi liberati non ottennero i 40 acri di terra promessa, ma subirono l’esecuzione di alcune nuove leggi dove erano obbligati ancora a lavorare nelle piantagioni di prima ma con un misero salario. Mentre molti ex coscritti tornarono a lavorare i loro campi che però non erano gli stessi di prima, ma su zone meno fertili e spesso di dimensione inferiore. Insomma c’è una parte della storia della guerra civile americana e del dopo guerra parzialmente occultata.  

   In Russia una quota importante di braccianti liberati dalla servitù fu assorbita dalle industrie, per lo più a capitali occidentali. 

   La riforma agraria, che va sotto il titolo di Abolizione della servitù della gleba del 1861 in Russia, la prendiamo in esame perché è ricca di risvolti storici, per modalità diverse da quella degli Usa, e che ci rimandano a quanto sta accadendo in India in questo periodo. Si trattò di una riforma che liberava i braccianti dalla proprietà della nobiltà, dunque li rendeva liberi di vagare per campagne e città alla ricerca di un lavoro e dunque alla mercé degli appetiti industriali, per un verso, mentre, per l’altro verso, offriva la facoltà a piccoli contadini o anche braccianti di “comprare” a prezzi esorbitanti pezzi di terra non fertilissimi, in posti disagiati ed a condizioni economiche da strozzare le aspettative capitalistiche di chi acquistava. E chi non riusciva a pagare in moneta doveva corrispondere o in natura, con prodotti della terra, oppure con lavori presso i terreni del padrone del feudo, che rimase fino al 1917.

   Diversamente dalla Russia, invischiata nell’oblomovismo della nobiltà, negli Usa lo sviluppo industriale procedeva in maniera impetuosa al punto che si imponeva la necessità di uno Stato federale tale da disporre la raccolta di fondi e di investimenti in infrastrutture. Una necessità che imponeva perciò anche una nuova legislazione per quanto riguardava la schiavitù razzista, che trovava l’opposizione dei coloni in molti Stati del sud, che non intendevano affatto rinunciare all’uso della schiavitù nelle piantagioni di cotone. 

   Ma proprio quella riforma dell’abolizione della servitù della gleba del 1861 in Russia, doveva aprire la porta alla complessità dei rapporti tra l’uomo, i mezzi di produzione e la terra; perché in questione non c’era soltanto la proprietà della terra, come pensavano in tanti, ma l’insieme dei nuovi rapporti sociali che la rivoluzione industriale andava producendo, perché mentre la terra esisteva in natura e richiedeva di essere utilizzata e sfruttata, lo sviluppo industriale produceva quel complesso di rapporti che costituiscono il Capitale, cioè l’insieme di più fattori impersonali. Insomma un lotto di terra può passare da un nobile a un mugico che prima la lavorava per il pomesciko mentre poi la lavora per conto proprio, la fabbrica invece si presenta non come risultato spontaneo della natura, ma come elaborato dell’uomo in termini spaziali e temporali, ovvero come processo.

   Pertanto sul piano del movimento storico dei rapporti degli uomini con i mezzi di produzione, la terra subisce il martirio del nuovo corso dell’industrializzazione al quale non si può in alcun modo sottrarre. Dunque quell’insieme di rapporti che il modo di produzione capitalistico va sviluppando si presenta come il vero soggetto della storia fino a illudere l’uomo sulla possibilità di dominare ogni altro aspetto della natura. Una illusione che nel corso di pochi secoli l’uomo dovrà bruciare. Basta guardare all’oggi e alle conseguenze della pandemia da Covid-19. 

   Diversamente e ancor più che per il passato si presenta oggi il rapporto con i contadini nel modo di produzione capitalistico, come i fatti dell’India di questi giorni stanno a dimostrare.

La terra è di Dio

    A differenza degli Usa, dove gli schiavi africani vennero importati, e degli europei che furono attratti dall’età dell’oro, in Russia i contadini servi della gleba erano stanziali da secoli immemori e avevano maturato la convinzione che la terra era di Dio, ovvero, tradotto materialisticamente, apparteneva alla natura e pertanto non poteva e perciò non doveva avere una proprietà nelle persone. Dunque il concetto «la terra è di Dio» diveniva una parola d’ordine per liberarsi dalla schiavitù della terra ed essere compartecipe del suo utilizzo per alimentare le energie dell’uomo e la sua sopravvivenza come specie. Ma se la nobiltà rivendicava il proprio diritto di proprietà, a questo punto i mugichi, visto che la terra la lavoravano, a giusta ragione la rivendicavano come un diritto di proprietà. Insomma se è di Dio è di tutti, se una parte se n’è ingiustamente impossessata è giusto ripartirla. Per farla breve, i mugichi applicavano il buon senso. Ma poi si sa che la storia dell’uomo di tutto è fatta meno che di buon senso, tant’è che Hobbes coerentemente definì l’uomo come lupo nei confronti un altro uomo: homo homini lupus.

   Allo sviluppo secolare della lotta per la proprietà della terra si sovrapposero, come su accennato, i nuovi rapporti che lo sviluppo industriale andava producendo;  e dunque il nuovo titolare della terra avrebbe dovuto fare i conti non più e non soltanto col precedente proprietario e con le strutture statuali e finanziarie per poter liberamente produrre e commercializzare i prodotti della terra e usare il bestiame, ma  doveva entrare in un ingarbugliatissimo meccanismo dove l’uomo contadino man mano perde ogni identità come tale per divenire sempre di più una rotella di quell’immenso meccanismo che da rionale diviene comunale, poi provinciale, poi regionale, poi nazionale ed infine addirittura mondiale. 

    In questo accidentato percorso ogni resistenza è resa vana dalle leggi dell’economia di mercato. A che punto di questo percorso si collocava la grande sollevazione dei contadini poveri nel novembre del 1917 in Russia e verso quali sviluppi poteva essere proiettata? È alla seguente domanda che cerchiamo di rispondere: dove può portare la lotta dei contadini in India contro la riforma del governo Modi?

   Ripetiamo: in queste note non ci occupiamo degli Usa o dell’Europa e neppure di come venne ripartita la terra prima e dopo il 1949 in Cina, o nei paesi dell’America latina, il che ci porterebbe lontani dalla comprensione di un passaggio storico obbligato, allora come oggi, ma che si sviluppa in due fasi completamente diverse del moto generale del modo di produzione capitalistico: uno al principio della rivoluzione industriale e, quello in India di questo periodo, in una fase di crisi profonda del movimento storico dell’accumulazione capitalistica. Pertanto non potremo avere gli stessi risvolti, ma più complessi e più semplificati, al tempo stesso, e cerchiamo di spiegare perché. 

   Ci corre l’obbligo di una precisazione: la storiografica sui fatti della Russia, sia di chi sostenne quella straordinaria rivoluzione che di chi l’avversò, sono viziate – giocoforza – dalla difesa o dalla condanna a priori, quando non dall’ideologismo. Sicché entrambe le posizioni risultano poco efficaci per comprendere in modo deterministico il corso storico. Mentre il nostro sforzo consiste nell’esaminare i crudi fatti senza l’influenza dell’opinione preventiva, che pure abbiamo. 

   I mesi tra la fine dell’estate e i primi dell’autunno che precedettero la presa del Palazzo d’inverno e la costituzione del governo rivoluzionario dei bolscevichi, furono caratterizzati da imponenti mobilitazioni dei contadini poveri che scappavano dal fronte di guerra per occupare le terre. Si trattò di un movimento rabbioso perché il governo Kerensky prendeva tempo e non si decideva a indire l’Assemblea Costituente che avrebbe dovuto procedere alle requisizioni e alle assegnazioni delle terre. 

I contadini e i bolscevichi   

   Nella notte della presa del Palazzo d’inverno, il primo decreto del governo diretto dai bolscevichi fu quello di requisire la terra della nobiltà e del clero. Sicché tanti intellettuali, imbevuti di ideologismo, del socialismo e del comunismo, farebbero bene a leggere con l’attenzione dovuta la storia, per evitare di scrivere continuamente scemenze. In attesa che venisse assegnata la terra pochi giorni dopo l’insurrezione per tutta la Russia furono svolte le elezioni politiche in cui i bolscevichi vinsero solo nelle due capitali, grazie a una imponente presenza operaia, mentre furono clamorosamente sconfitti per il restante della Russia, dove predominava la presenza dei contadini. Come fu possibile una cosa del genere? Come mai i contadini votarono contro chi li aveva sostenuti senza esitazione nelle occupazioni delle terre e nella rivendicazione della ripartizione, e per tutta risposta votarono per i liberali e i socialisti rivoluzionari che stavano nel governo Kerensky, che li reprimeva durante le occupazione delle terre? A questa domanda si può rispondere in un unico modo: mentre liberali e socialisti rivoluzionari da sempre paventavano la riforma agraria e si battevano perché la terra fosse distribuita ai contadini come in Occidente, i bolscevichi ci erano arrivati solo nell’ultimo periodo e solo a seguito delle lotte che si erano svolte dopo il 1905.  

   La conclusione del nostro ragionamento è che i contadini, piccoli, medi e grandi, puntavano a costituire in proprio l’azienda agricola e sviluppare l’accumulazione capitalistica; mentre i bolscevichi, con Lenin come guida politica, pensavano alla costituzione di organizzazioni comunitarie di semina, raccolto, lavorazione e distribuzione al consumo. Una palese contraddizione che non poteva essere superata dalla volontà politica e ideologica dei bolscevichi. 

   Rosa Luxemburg, che aveva accuratamente studiato Il capitale di Marx, e aveva ben assimilato il senso storico della forza delle leggi dell’accumulazione capitalistica, pur sostenendo la Rivoluzione mise in guardia Lenin e i bolscevichi dicendo loro: «attenti cari compagni, questi saranno i vostri carnefici». Giust’appunto: sostegno alla causa della rivoluzione contro la nobiltà, ma attenzione a sposare fino in fondo la causa dei contadini. 

   È questa una delle questioni storiche che il movimento ideale del comunismo si è trovato ad affrontare venendo però travolto dalla forza delle leggi dell’economia di mercato che recavano il segno l’homo homini lupus anche in Russia, come nel resto del mondo. 

   Per ultima una questione non secondaria rispetto alla quale va fatta chiarezza: i bolscevichi, e Lenin in modo particolare, furono violentemente attaccati dal liberalismo borghese di tutto l’Occidente perché non solo requisirono la terra alla nobiltà e al clero, ma la assegnarono per bocche ai contadini, secondo i componenti del nucleo familiare, mentre in Francia la borghesia nascente se ne impossessò con mille artifizi legislativi. Nel resto d’Europa non andò diversamente. Ecco il vero motivo degli attacchi che per decenni Lenin e i bolscevichi  subirono dagli storici al servizio del capitalismo mondiale. 

Veniamo all’India d’oggi 

   Questo immenso paese, partendo dalla liberazione dalla dominazione coloniale dell’Inghilterra, ha dovuto fare di necessità virtù per rincorrere un’accumulazione primitiva autoctona e inserirsi nel processo di accumulazione dell’insieme del modo di produzione capitalistico, ma è arrivato al dunque, cioè a impattare con quelle leggi che lo obbligano a misure drastiche nei confronti dei contadini e avviare una radicale ristrutturazione dell’agricoltura.     Nella scheda analitica che segue, redatta da Alessio Galluppi di Noi non abbiamo patria, cerchiamo di mettere a fuoco quali drammatiche conseguenze si preparano per milioni di contadini e operai indiani e quali riflessi si produrranno sul mercato mondiale dell’agroalimentare sia nei confronti del mercato cinese, che comincia ad accusare qualche battuta d’arresto, che del mercato nordamericano dove si addensano nubi nere all’orizzonte. 


Scheda Analistica sull’India (di noi non abbiamo patria)
premessa

L’india ha una popolazione di più di 1 miliardo e 300 milioni di persone, di cui circa il 52% è di età inferiore ai 30 anni, e la popolazione di età al di sotto dei 15 anni è circa il 26% del totale. Viceversa, la popolazione con più di 60 anni è tra il 9% ed il 10%, indicando una aspettativa media di vita bassa.

Almeno la metà della popolazione Indiana vive nelle campagne ed è occupata nel settore primario (agricoltura, allevamento, legname, pesca), quindi parliamo di circa 650 milioni di persone. Alla popolazione che direttamente vive per le attività legate alla economia primaria, deve essere aggiunta tutta quella parte di popolazione indiana che vive per attività collegate alla produzione agricola, di allevamento e pesca, come lo stoccaggio, logistica, intermediazione commerciale e distribuzione, che arriva ad essere più dei due terzi della popolazione complessiva. Quindi per legame diretto ed indiretto sono circa 900 milioni il volume della popolazione indiana che deve al lavoro dei campi e alla pesca il proprio sostentamento ed il proprio reddito.

Gli analfabeti sono circa il 25% della popolazione.

Detto questo, il PIL legato al settore primario dell’economia indiana ammonta tra il 16% ed il 18% del PIL nazionale.

Il PIL legato al settore primario ed in special modo alla produzione agricola è ancora suscettibile alle stagioni dei monsoni che possono determinare ancora oggi stagioni di siccità e stagioni di rigogliosa produzione agricola. Una delle principali conseguenze della dominazione colonia britannica fu proprio smantellare il ministero dei lavori pubblici che aveva come scopo principale la manutenzione a spese dello stato di imponenti opere di canali di irrigazione, ecc.

Karl Marx nell’articolo “i risultati futuri del dominio britannico in India” del 1853 scrive: “gli inglesi nell’India orientale hanno accettato dai loro predecessori il dipartimento delle finanze e della guerra, ma hanno trascurato completamente quello dei lavori pubblici. Da qui il deterioramento di un’agricoltura che non può essere condotta secondo il principio britannico della libera concorrenza, del laissez-faire e del laissez-aller”.

Negli ultimi 30 anni e soprattutto dagli anni ’90 una seconda manomissione imperialista ha agito nel riportare indietro lo sviluppo della agricoltura Indiana attraverso la rapina dell’oro blu, l’acqua, attraverso l’opera di costruzioni di migliaia di dighe (un progetto di 3200 dighe) lungo il corso del fiume Narmada (lungo 1300 Km che corre da est fino al mar arabico), provocando la scomparsa di migliaia di villaggi agricoli, lo spostamento dei corsi d’acqua, l’inondazione di interi villaggi ed aree agricole, mentre altre finivano per essere prive di una struttura di irrigazione ed il tutto per fornire l’oro blu ai colossi occidentali dell’agro business produttori di bibite gassate, succhi di frutta ecc., primi fra tutti Pepsi e Coca Cola. Opera inoltre di stravolgimento dell’ecosistema idrico naturale, delle foreste e degli altipiani indiani. A questo si è affiancato il più recente sviluppo dell’industria mineraria dei metalli rari (cadmio, litio, vanadio, tungsteno, ecc. determinanti per l’industria tecnologica high tech e per la cosiddetta green economy). Questo tipo di attività mineraria già nell’estrazione dei metalli rari ha un enorme impatto ambientale e per la salute umana, perché la quantità notevole di roccia contenente metalli pesanti e con carica atomica è notevole e che viene rilasciata nell’ambiente e generalmente nei corsi d’acqua. Anche per questo tipo di industria mineraria i corsi d’acqua vengono deviati e convogliati nei sistemi di ulteriore separazione e setaccio del metallo raro dal blocco di roccia, le cui scorie vengono poi scaricate nel sistema idrico degli impianti.

E’ notizia dell’8 dicembre 2020 la comunicazione ufficiale delle autorità sanitarie della zona dell’Andhra Pradesh del diffondersi di una malattia mortale – che si aggiunge a quella della pandemia da Sars-Cov-2 – causata da un avvelenamento massiccio del sangue da parte di metalli quali piombo e nichel.

L’economia agricola in numeri

Sono circa 130 milioni le imprese agricole private registrate ufficialmente. Circa l’83% di queste aziende agricole sono di meno di 2 ettari, nel dettaglio le piccole proprietà non superiore ad 1 ettaro sono il 64,77% del terreno agricolo complessivo, il 18.5% non è superiore ai 2 ettari, mentre solo lo 0,85% delle proprietà agricole è costituito da grandi aziende con più di 10 ettari, per un totale di più di 158 milioni di ettari. Questo 83% possiede intorno al 36% della terra coltivata, mentre le restanti aziende agricole di dimensione intorno ai 5 ettari possiede circa il 60% della terra agricola.

Lo stato che prevede una meccanizzazione più avanzata nella produzione agricola è il Punjab. E’ il piccolo stato situato nel nord ovest del subcontinente indiano, il cui territorio è di 50362 Km2 e di cui il 97% della superficie agreste è irrigata. Il Punjab è considerato il paniere dell’India ed è lo stato indiano che in media contribuisce in misura maggiore al PIL statale (il settore primario contribuisce del 24% al PIL dello stato, di contro al 16%-18% medio dell’intera India).

Il Punjab è lo stato indiano dove la struttura delle proprietà fondiaria ha caratteristiche leggermente più avanzate rispetto all’intero subcontinente indiano. Qui il 60% delle proprietà è composto da aziende di dimensioni maggiori dei 2 ettari ed inferiori ai 10 ettari.

Il Punjab offre anche uno sbocco importante per il mercato della produzione di trattrici ed altri macchinari agricoli per il complesso dell’industria mondiale dei macchinari agricoli. Secondo un censimento del 2009 il Punjab assorbiva circa l’8% dell’import delle trattrici e dei macchinari agricoli dell’intera India. La tabella qui di seguito deriva da un censimento eseguito dal governo del Punjab circa l’uso di trattrici, trebbiatrici e di altri macchinari agricoli al 2009.

La tabella è ricavata da uno studio del 2009 da FICCI e Yes Bank sulla base dei dati censiti dalle autorità del Punjab. Possiamo concludere che nell’intera India, all’anno 2009 il volume delle trattrici potesse essere di circa 5 milioni.

Sempre FederUnacoma (Federazione Nazionale Costruttori Macchine Agricole) in uno studio del 2013 stima che il mercato indiano offriva alla produzione mondiale dei macchinari agricoli una domanda di trattrici pari a 450000 unità l’anno, volume che era superiore alla domanda cinese, di 3 volte superiore dell’intera domanda di mercato dell’EU, e 5 volte superiore alla domanda di mercato degli Stati Uniti. Di fatto nel 2012/2013 il mercato indiano era al primo posto sulla scala mondiale per lo sbocco della produzione di macchinari agricoli dell’industria mondiale.

Questo dato ci dice del livello di saturazione della domanda di macchinari agricoli dalle produzioni tecnologicamente più avanzate dell’Europa comunitaria e del Nord America già al 2013. Ma anche lo stesso raffronto tra il numero di trattrici in ammortamento al 2009 ed il numero di trattori venduti nel 2013 ci descrive anche una contrazione della domanda Indiana.

A leggere i report di FederUnacoma, l’India costituisce un target fondamentale della produzione mondiale di trattrici e macchinari per l’agricoltura intensiva (soprattutto di fronte allo sfumare delle possibilità di sbocco per le merci meccanizzate nel mercato iraniano, di nuovo stretto dall’embargo imposto dagli USA). Le analisi suggeriscono anche che la già attuale produzione agricola indiana, se dotata degli opportuni macchinari agricoli, potrebbe raddoppiare. È stato infatti rilevato che, ad esempio, il raccolto di riso potrebbe passare dalle attuali 2,9 alle 5,0 tonnellate per ettaro, quello di grano da 3,8 a 5,5, quello di civaie da 0,7 a 1,5 e quello di patate da 19,3 a 35. Quindi in teoria la produzione agricola indiana contiene una potenziale espansione. Eppure, nonostante che la maggior parte della produzione e degli ettari coltivati è basata su trazione animale, già nel 2006 Unocoma stabiliva che la produzione agricola dell’India copriva il fabbisogno alimentare del 17,6% della popolazione mondiale. In sostanza, nonostante il ritardo della produzione agricola nella meccanizzazione, nel 2006 l’India aveva raggiunto abbondantemente la autosufficienza alimentare consentendole anche di accantonare scorte utili per non subire danni o ripercussioni a fronte di una “annata sfortunata”.

Ma l’espansione del mercato indiano agricolo si è inceppata. Negli ultimi due anni c’è stata una ulteriore contrazione del 10% della domanda indiana per l’import delle trattrici ed altri macchinari rispetto al periodo 2013/2017. Il motivo della contrazione appare evidente, ed è legato con il limite strutturale della proprietà della terra indiana che non consente a quel 36% della terra agricola del Punjab composta da possedimenti di 2 ettari e di quel 60% sempre del Punjab composta da proprietà inferiori ai 5 ettari di accumulare il capitale finanziario per l’investimento in capitale tecnico fisso per la produzione. Il limite poi è ancor più evidente se dal Punjab si passa al resto del subcontinente indiano. E questo anche perché gran parte dei piccoli contadini che hanno investito nel capitale tecnico fisso si sono anche esposti ad un pericoloso e crescente indebitamento. Infatti, mentre il Punjab registra una struttura della proprietà fondiaria della terra più vicina ai caratteri di molte aziende agricole dei paesi capitalisti più avanzati, anche in questa regione la capacità di investimento per una continua innovazione del capitale fisso e tecnico rallenta mentre i contadini sono esposti verso le banche commerciali nazionali che di fatto hanno in garanzia il capitale fisso delle piccole aziende agricole.

L’attuale assetto di arretratezza della produzione agricola indiana, seppure virtuosamente autosufficiente, espone alla fame contadina e del proletariato delle città per effetto dell’azione duplice e combinata della concorrenza internazionale. La produzione agricola indiana, in termini di valori commerciali, rappresenta solo l’11% dell’export commerciale indiano ed rappresenta in termini di valore del PIL della produzione agricola mondiale solo il 2,5%. Questo significa che la produzione agricola indiana viene scambiata sul mercato mondiale delle merci agricole davvero ad un prezzo basso. Nonostante la produzione agricola indiana copra il 17,6% del fabbisogno mondiale, in termini di valori di ricavi e fatturato l’insieme dell’economia agricola indiana ne ricava solo un 2,5%. Come contraltare, il mercato interno soffre enormemente nelle grandi città indiane la penetrazione delle catene commerciali globali nel mercato dei fast food, dei supermarket store, ecc. che mettono in costante difficoltà la rete commerciale dei mercati di strada, inondando il mercato alimentare delle città indiane con prodotti dell’industria agroalimentare estera. Questo non ha consentito alle famiglie contadine di migliorare la propria condizione e di accumulare un certo reddito da rimettere in circolo sotto forma di capitali fissi nelle loro produzioni. Mentre la concorrenza internazionale sul mercato interno dei beni legati al cibo, spinge al ribasso dei prezzi, nonostante il sistema “mandis” protegga il ribasso eccessivo attraverso la fissazione di prezzi minimi dei prodotti.

In sostanza la penetrazione relativa della meccanizzazione nella agricoltura indiana non ha visto una crescita economica, bensì una graduale ed inesorabile lenta caduta, che diventa drammatica quando si entra nel merito, al di là delle medie generali, su una popolazione che coinvolge la metà della popolazione indiana.

A fronte della acuita concorrenza globale dell’agrobusiness, il sistema “mandis”, ossia il circuito dei magazzini di stato, intermediazione e commercio all’ingrosso, regolato dalla burocrazia statale, gruppi di grossi proprietari ed alcuni buyer commerciali, consente che la concorrenza sul mercato interno della produzione agroalimentare mondiale impedisca il ribasso dei prodotti indiani al di sotto di certe soglie prestabilite. In sostanza il sistema “mandis” protegge nelle annate di cattivi raccolti sia il contadino che il consumatore proletario della città attraverso le scorte accumulate durante le annate di raccolti buoni, ed evita le conseguenti speculazioni che le oscillazioni della produzione agricola espongono sia il piccolo produttore che il consumatore. Al tempo stesso il sistema “mandis” previene il giochetto di “occultare” parte del prodotto da parte dei medi e grandi produttori agricoli sia nelle annate buone che in quelle cattive per imporre un rialzo o un ribasso dei prezzi secondo la loro convenienza, essendo annualmente le eccedenze della produzione già concentrate nei magazzini dello Stato e vendute già ad un prezzo prestabilito.

La crisi di sovrapproduzione dell’industria mondiale dei macchinari agricoli e trattrici, combinata con la necessità delle poche grandi aziende agricole di sostenere la concorrenza internazionale dell’agro industria impongono una riforma, una rivoluzione, nell’assetto della proprietà della terra agricola indiana.

Se negli ultimi due anni il mercato di trattrici ed altri macchinari è sceso del 10%, questo non è avvenuto perché ci sia stato uno stallo della produzione agricola. Il motivo è che le aziende agricole di medie o grandi dimensioni, che dispongono del capitale utile per gli investimenti nella produzione, possono continuare a farlo solo nella misura che si proceda verso una decisa concentrazione della proprietà delle terre. Dunque, i margini di crescita della produzione agricola e dunque di maggiore competitività di contro al mercato internazionale, richiedono la trasformazione forzosa dell’universo dalla piccola proprietà contadina in evolute aziende agricole “cooperative” capitalistiche di medie o di più grandi dimensioni. E solo attraverso questa precondizione che l’industria italiana e mondiale dei macchini agricoli potrà ritrovare una ripresa della domanda di mercato ed uscire da una prospettiva di crescenti perdite nel volume dei profitti derivanti dalla sovrapproduzione dei macchinari agricoli, rapportata alla struttura dell’economia agricola indiana e mondiale.

Per capire quanto il mercato indiano della terra, e dunque la riforma/abolizione del sistema “mandis” a favore della liberalizzazione proposta dal governo Modi, sia legata alla crisi di valorizzazione complessiva del capitale, alla crisi di sovrapproduzione ed alla caduta tendenziale del saggio di profitto, basta fare riferimento alla capacità di assorbimento del mercato interno italiano della produzione dei macchinari agricoli, il cui calo non è solo in India ma anche nella evoluta Europa ed Italia. Per esempio, FederUnacoma registra che l’Italia per il 2019 si ferma a 18579 unità, mentre la vendita delle macchine usate è volata a 39800 unità. Sul rapporto si legge “i mezzi nuovi di fabbrica crescono nell’anno dello 0,7% a fronte di un incremento per quelli d’occasione del 5,3%. Il calo dei redditi agricoli (diminuiti nel 2019 del 2,6%) riduce la capacità d’investimento delle imprese, alimentando un mercato di ripiego che peggiora la qualità e l’impatto ambientale delle lavorazioni agricole”.

E’ in questo contesto che si inserisce la riforma del governo Modi di totale liberalizzazione del mercato agricolo, dove di fianco al sistema “mandis” (che oltretutto tutela attraverso il suo sistema di scorte la popolazione delle città dall’improvviso aumento dei prezzi in caso di una stagione di siccità e di medio raccolto), si inserirà in maniera prevalente il sistema privato delle grandi catene internazionali della distribuzione e dei gruppi finanziari interni della mercato dell’agro business. All’immediato questo nuovo circuito potrà proporre prezzi più vantaggiosi per il piccolo contadino indiano, che già oggi per giorni è chino sul suo pezzetto di terra mentre in altri giorni lavora come bracciante agricolo nelle aziende agricole più grandi. Ma non appena questo sistema di circolazione e distribuzione avrà preso il sopravvento, a fronte di una annata andata a male o di un aumento della produzione che comporterà una oscillazione dei prezzi, sia la città che la campagna verranno affamati e strozzati dal debito. Lo scambio prodotto della terra futuro in equivalenti di sementi o fertilizzanti comporterà un sicuro peggioramento dell’indebitamento dei piccoli contadini indiani, che sempre più saranno costretti, per ripagare il debito, ad aumentare il loro lavoro bracciantile trascurando il proprio piccolo appezzamento che andrà velocemente in rovina. Insomma, è un processo di liberalizzazione del mercato dei prodotti agricoli funzionale al processo di spopolamento e di spoliazione – violenta e per mezzo dell’indebitamento – della terra a vantaggio del grande capitale agricolo locale, dell’industria dell’agrobusiness internazionale e di quella industriale del mercato delle trattrici e dei macchinari agricoli.

Come tutte le “rivoluzioni” borghesi del passato, queste si sono imposte attraverso la distruzione della vecchia economia agricola, l’esproprio, la riduzione alla fame nelle campagne e conseguentemente delle città. Questo è quanto prospetta la riforma Modi.

Non è un caso che la lotta dei contadini contro la riforma è più forte proprio nella zona del Punjab, dove i livelli medi di sviluppo in senso industriale dell’agricoltura sono maggiori che nel resto del paese, e, come contro altare, il processo di polarizzazione sociale nelle campagne è maggiormente visibile e dove il vecchio patto del gandhismo con le classi contadine si sta frantumando, così come la strisciante concentrazione della proprietà delle terre è in marcia.

Questo non è un processo dell’oggi, ma segue un graduale percorso di polarizzazione sociale all’interno delle relazioni capitalistiche della agricoltura indiana. Nel 1970 la dimensione media del possedimento contadino era di 5,63 acri, per poi diventare dieci anni dopo di 4,55 acri, fino agli attuali 1,57 acri attuali. Inoltre, dall’indipendenza ad oggi circa 50 milioni di acri di terra coltivabile (il 6% del totale della terra coltivabile) è stato sottratto ai contadini e riconvertito per usi non agricoli (costruzioni di infrastrutture, dighe, ecc. – vedi l’opera di spopolamento delle campagne per la rapina dell’oro blu, dell’acqua). Già oggi si stima che per gli effetti degli espropri forzosi c’è una popolazione di 60 milioni di contadini senza terra alcuna, andando a costituire forza lavoro proletaria bracciantile delle campagne.

Anche il 2018 ed il 2019 sono stati caratterizzati da scioperi dei contadini, piccoli proprietari e contadini senza terra, che richiedevano un ritocco dei prezzi minimi adeguati al costo della vita e dell’inflazione e dei tassi di interesse, la protezione delle famiglie a fronte di siccità ed altre calamità naturali e soprattutto contro l’acquisizione delle terre destinate a grandi progetti industriali svendute dallo Stato a grandi aziende soprattutto straniere. Le principali terre espropriate e svendute sono state le cosiddette “terre in comune”, principalmente utilizzate dai contadini senza terra e da quelli più poveri, denominate “common property resources” (CPRs). Le CPRs costituiscono circa l’11% del terreno agricolo, ma gli ultimi censimenti dello Stato Indiano ne hanno riconosciuto formalmente solo lo 0,4% come proprietà inalienabile dei villaggi agricoli, quindi facilitando la privatizzazione senza alcun indennizzo per migliaia di villaggi e per milioni di contadini. L’esistenza delle common property resources proviene dall’epoca precedente alla dominazione coloniale britannica.

Nel contesto dei villaggi indiani, le risorse di proprietà comuni includono foreste comunitarie, pascoli comuni, serbatoi e loro letti, spiagge, aie, fiumi e alvei, e capitale tecnico vario (pompe e sistemi di irrigazione, trazione animale, materiale in legno, e foraggi), dove un regime di proprietà ben definito potrebbe non esistere. Le risorse di proprietà comune sono quelle risorse che sono accessibili all’intera comunità o villaggio e per le quali nessun individuo ha proprietà o diritti di proprietà esclusivi. Nell’India pre-britannica, gran parte delle risorse naturali del paese era liberamente disponibile per la popolazione rurale. Queste risorse erano in gran parte sotto il controllo delle comunità locali. A poco a poco, l’estensione del controllo statale su queste risorse ha portato al decadimento del sistema di gestione della comunità tanto più che il colonialismo britannico ha imposto la cancellazione dei ministeri per le opere pubbliche. In questo processo, le risorse di proprietà comune a disposizione degli abitanti dei villaggi sono diminuite sostanzialmente nel corso degli anni. Tuttavia, è stato ampiamente riconosciuto e concordato che le risorse di proprietà comune svolgono ancora oggi un ruolo importante nella vita e nell’economia della popolazione rurale. Ancora oggi l’esistenza delle CPR è determinante per il mantenimento della biodiversità, dell’ecosistema agricolo e per i fabbisogni generali dei villaggi agricoli e per l’economia delle piccole e piccolissime proprietà private. Nel dicembre 1999, il dipartimento di statistica del governo indiano ha pubblicato i dati relativi ad un censimento e sondaggio condotto nelle comunità e nei villaggi agricoli indiani circa la struttura, l’economia e l’utilizzo delle “common property resources”, le quali non solo prevedevano fino ad un 28% del territorio del villaggio gestito secondo questa caratteristica di proprietà comunitaria “primitiva”, ma anche relativamente ai fattori legati al sostentamento delle famiglie costituite in gruppi comuni più allargati, chiamate “household”, che condividono l’abitazione, il consumo e la preparazione del cibo [la pubblicazione del censimento in inglese sulle CPRs può essere trovato a questo link].

Nel censimento e nella ricerca si legge: “In generale, le risorse di proprietà comune si riferiscono a tutte le risorse che sono accessibile a tutta la comunità e per la quale nessun individuo ha diritti di proprietà esclusiva. I diritti e le pratiche che determinano l’accesso a queste risorse sono generalmente convenzionali. In India, i CPR includono pascoli e pascoli nei villaggi, foreste del villaggio e aree boschive, aree protette e foreste governative non classificate, terreni incolti, aie comuni, drenaggio di bacini idrografici, stagni e cisterne, fiumi, ruscelli, serbatoi d’acqua, canali e canali di irrigazione. I CPR tradizionalmente sono stati una fonte di sostentamento economico dei poveri delle campagne e hanno svolto un ruolo importante di integrazione delle risorse nel sistema agricolo basato sulla proprietà privata. Sono anche la principale fonte di biomassa combustibile per la popolazione rurale. Nella presente inchiesta, i dati sulle dimensioni e tutte le forme e l’uso dei CPR sono stati raccolti utilizzando due diversi approcci concettuali. Delle tre principali categorie di CPR, vale a dire: terra, acqua e foreste, la presente inchiesta tenta di stimare l’entità delle CPR solo alla terra”.

Per quanto riguarda le dimensioni delle common property resources e la loro distribuzione circa la destinazione d’uso, il censimento produsse questi dati:

Data la dimensione del 67% delle proprietà agricole che sono al di sotto di 1 ettaro, l’importanza della tabella qui sopra evidenzia due elementi importanti:

  • Che il 15% dell’area agricola indiana complessiva è costituita da CPR
  • Che per ogni household (gruppo familiare più allargato) mediamente c’è uno 0,31 di ettaro in più che si aggiunge alla dimensione del terreno agricolo formalmente posseduto come proprietà privata o per i gruppi che non posseggono affatto alcuna terra.

Quel 15% di fatto include il villaggio stesso ed altre aree comuni, aie o terreni incolti. Al netto di queste differenze la risultante del terreno di tipo CPR per la coltivazione o per il pascolo è riportato dalle tabelle seguenti:

La successiva tabella riporta il rapporto della dimensione in ettari delle risorse CPR e la dimensione dei villaggi agricoli indiani.

Il rapporto pone l’attenzione sulla diminuzione, esaurimento e decadimento delle “common property resources” – che è detto per inciso l’altra faccia della lunga espropriazione e manomissione imperialista nella lunga e trentennale rapina dell’oro blu, dell’acqua:

Ci sono prove che indicano un rapido declino delle CPR, sia in termini di dimensioni che di produttività. Nella presente indagine, è stato fatto un tentativo di valutare il tasso di esaurimento nella dimensione della terra CPR.

La tabella T6 fornisce il tasso di esaurimento calcolato secondo l’attuale disponibilità di common property resource per household in ciascuna zona geografica. È importante notare che le stime del tasso di esaurimento si basano sui dati dell’attuale dimensione delle CPR e sulla dimensione che esisteva cinque anni fa prima di questo sondaggio. I dati su entrambi sono stati raccolti con un approccio de jure durante la presente indagine.La tabella T6 indica che l’area del terreno delle common property resource nell’India rurale sta diminuendo a un ritmo quinquennale dell’1,9%. I due tassi di declino più rapidi sono stati osservati nelle zone A-C del Gange medio (7,2%) e Trans-Gangetic (7,1%), dove l’attuale disponibilità di terreno per CPR per famiglia è pari a 0,07 ettari. La diminuzione percentuale relativamente alta è stati segnalata anche nelle zone A-C Eastern Plateau & Hills (5%) e Altopiano meridionale e colline (4,3%)”.

Se la tabella è corretta, dunque tra il 1995 ed il 1999 circa 19000 ettari sono stati sottratti, espropriati ai contadini. L’importanza delle common property resources per l’economia e la produzione agricola è notata dallo stesso censimento che nota:

La tabella T7 fornisce le stime di alcuni parametri di base che indicano l’entità dell’uso delle CPR dalle famiglie rurali. Circa la metà delle famiglie rurali raccoglie materiale naturale o di altro genere dalle common property resources. Il valore medio di queste raccolte annuali per famiglia a 693 rupie, che equivale al 3% della spesa media per consumi di una famiglia rurale.

Oltre alla raccolta di materiali, la popolazione rurale trae benefici dalle CPR in molte altre forme. Per esempio, si è scoperto che un quinto delle famiglie utilizza la CPR per pascolare il bestiame. L’utilizzo in comune delle risorse idriche di proprietà comune (CPWR) sono utilizzate anche da un’ampia parte della popolazione rurale per vari scopi. L’uso più importante della CPWR è, senza dubbio, per l’irrigazione della terra coltivata.

Circa il 23% delle famiglie utilizza le risorse idriche come cisterne, pozzi e pozzi tubolari di proprietà del villaggio panchayat o della comunità del villaggio o da quelle forniti dal governo come canali, fiumi e sorgenti del governo, per l’irrigazione della loro terra.

Ciò dimostra l’importante ruolo di integrazione delle risorse della CPR per l’agricoltura basata sulla proprietà privata. Anche l’uso della CPWR per l’allevamento del bestiame è risultato abbastanza comune – il 30% delle famiglie utilizza le risorse idriche di proprietà comune per questo scopo. Per le altre attività domestiche, circa il 3% delle famiglie utilizza le risorse idriche di proprietà comune.”.

Facendo una gretta contabilità capitalistica, la tabella di seguito mostra il rapporto tra quanto l’economia della proprietà comuni dà in confronto alla spesa media per il consumo.

Relativamente all’uso delle risorse di proprietà comune da parte delle famiglie contadine, lo studio ha eseguito un raggruppamento delle stesse nelle seguenti 5 categorie:

  1. famiglie con la quota maggiore di reddito familiare in arrivo dal lavoro salariato retribuito
  2. famiglie che posseggono terra privata inferiore ai 0,2 ettari
  3. famiglie che posseggono terra privata tra 0,2 ettari e 0,5 ettari
  4. famiglie che posseggono terra privata tra 0,5 ettari e 1 ettaro
  5. famiglie che posseggono terra privata >= 1 ettaro.
Fuelwood è legna da ardere, fodder è foraggio, other è altro.

Nel mentre procede inesorabile la polarizzazione sociale nelle campagne, l’esproprio delle common property resources, l’indebitamento delle comunità contadine e l’aumento di contadini senza terra, lo sciopero di questi giorni non nasce improvviso ed è la continuazione di quello del 30 novembre del 2018 quando sempre dal Punjub circa 100 mila contadini marciarono su New Delhi. Oggi la dimensione della compressione delle condizioni di vita e di lavoro dei contadini si fa ancora più drammatica, in quanto la legge Modi intende accelerare il processo di spopolamento ed esproprio forzato (per mezzo del debito e della concorrenza capitalistica), perché il mantenimento del compromesso sociale nelle campagne realizzato dal gandhismo e neo gandhismo appare impossibile per il livello della crisi generale e mondiale del capitale, ulteriormente aggravata dalla pandemia.

Note:
  1. Tra il 1995 ed il 2015, circa 300 mila contadini indiani si sono tolti la vita per evitare che le loro famiglie venissero soffocate e strozzate dal debito.
  2. Esempio del processo di concentrazione della proprietà privata capitalistica della terra negli USA è riportato qui di seguito.
circa 100 mila aziende agricole sono scomparse negli USA per effetto della concentrazione della terra e della crisi economica dal 2013 al 2019??

2 pensieri riguardo “Il modo di produzione capitalistico e la questione contadina ieri oggi e domani

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